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Il dubbio si insinua. Il grande affresco cristico di un progetto comune che unisce storia umana e divenire cosmico, che riconcilia giudaismo e cristianesimo, che porta a termine la convergenza delle religioni, appare illusorio. Gesù, strappato da Dio alla morte, non ha realizzato il sogno profetico evocato negli inni delle epistole della cattività. Il dono del suo Spirito non ha eliminato le fratture: le divisioni sono attive e degenerano spesso in ostilità. Bisogna spostare fuori dal nostro mondo l'utopia dell'unità? Essa muove l'ecumenismo, incita al dialogo con il giudaismo, accelera gli scambi interreligiosi; non è una utopia inerte. Bisogna rinunciare al senso globale della storia? Esso ha dinamizzato la cultura occidentale. Non è cosa irrisoria. È ragionevole in questo mondo di disseminazione di violenza, riconoscere al Cristo risorto la volontà di unificare ciò che continuamente va in frantumi? Non sarebbe attribuirgli un desiderio prematuro? È possibile percorrere un'altra strada: assumere in maniera positiva la divisione. Se i frammenti che costituiscono il nostro mondo venissero eliminati, l'unità sarebbe crudele e totalitaria: non permetterebbe di riconoscere la libera singolarità di quei frammenti e sfruttarne le ricchezze. Il cristiano crede all'esecuzione di una sinfonia finale, ma ne ignora la partitura: sospetta che non sia ancora stata scritta. Alcuni indizi ne lasciano intravedere la bellezza. L'autore della Cristologia (1972) situa ora la problematica cristologica nel contesto della nuova cultura e dei nuovi interrogativi.